L’hockey su ghiaccio visto da un arbitro: intervista a Ulrich Pardatscher

Oggi vi proponiamo un’intervista a Ulrich Pardatscher, linesman di serie A del campionato italiano di hockey su ghiaccio e degli ultimi mondiali di seconda divisione tenutisi in Islanda lo scorso aprile, per conoscere da vicino la vita di un arbitro di uno sport che in Italia rimane purtroppo confinato in poche regioni del nord.

Ulrich, raccontaci come sei diventato arbitro di hockey…

L’hockey è stata la mia passione sin da piccolo e già all’età di cinque-sei anni avevo pattini ai piedi e stacca in mano. Ho fatto tutto il settore giovanile, ma poi, arrivato il momento di passare in prima squadra, mi sono reso conto che riuscire ad arrivare a giocare ad alti livelli sarebbe stata dura. La passione per lo sport però era troppa per abbandonare definitivamente quel mondo e così, quando un mio amico mi ha chiesto se volevo provare ad arbitrare, ho accettato di provare, quasi per gioco. Non ho più smesso.

Qual è l’impegno richiesto per fare l’arbitro di hockey?

L’impegno richiesto è sicuramente tanto. E’ come avere un secondo lavoro. Innanzitutto bisogna essere allenati e poi calcola che, tra campionati giovanili, di serie A2 e A1, si arbitrano due o tre partite a settimana. Questo vuol dire che in media devi partire alle 17:00 per tornare a casa alle 3:00. E il mattino dopo devi essere in piedi per andare al lavoro…

Come e da chi venite pagati?

Veniamo pagati un tot a partita. Ci sono delle tariffe prestabilite a seconda della categoria e del ruolo. I linesman prendono una cifra, mentre il capo arbitro ne prende un’altra. Poi, a seconda della distanza della trasferta, chi guida viene rimborsato delle spese di viaggio. Noi arbitri facciamo riferimento al Gruppo Arbitri Hockey Ghiaccio che ci designa per le partite in base alle richieste della FISG (Federazione Italiana Sport del Ghiaccio), che poi ci paga.

C’è molta pressione?

Beh, rispetto ad altri sport, come ad esempio il calcio, noi non siamo vittime di processi del lunedì. Anche se l’hockey è molto difficile da arbitrare, perché è uno sport veramente veloce, girano meno interessi e quindi le pressioni sono per forza di cose minori.

In più venite anche aiutati dalla tecnologia vero?

Si, in serie A ci sono le telecamere all’interno delle porte e in sette casi specifici, il regolamento ci consente di avere il supporto tecnologico. Grazie ad esso possiamo risolvere situazioni spinose come ad esempio il gol-non gol, una rete segnata con il pattino (valida solo se il tocco è involontario, ndr), stabilire se un gol è stato segnato o meno a tempo scaduto o se qualcuno ha spostato volontariamente la porta. Ad ogni modo, casi particolari a parte come quando un portiere è sdraiato sul disco nei pressi della linea di porta, il 90% delle volte la moviola ci dà una gran mano.

In molti pensano che l’hockey sia uno sport violento, è davvero così ?

Assolutamente no. Certo, c’è molto contatto fisico, ma lo definirei uno sport duro più che violento. Visto da fuori capisco che possa sembrare molto più crudo di quando non sia in realtà, ma un giocatore, senza contare le protezioni che indossa, la carica dell’avversario se l’aspetta e si allena anche per subirle nella maniera giusta.

Sei tornato da qualche settimana dal mondiale di seconda divisione tenutosi in Islanda, come valuti quell’esperienza?

Innanzitutto è stato un motivo d’orgoglio per me rappresentare il mio paese all’estero. Poi, che dire, sono stati dieci giorni di full immersion nel professionismo. La mattina ci si allenava, a seguire avevamo riunioni tecniche in cui ci venivano mostrati dei video e poi si arbitrava. Il tutto affiancati da veri professionisti da cui ho cercato di imparare il più possibile. Se si considera poi che eravamo tutti ragazzi della stessa età più o meno, l’esperienza è stata indubbiamente ottima.

Visto che abbiamo parlato di mondiali, quello di gruppo A si è appena concluso con la retrocessione dell’Italia. Quale sarebbe secondo te un modo per ridare una scossa al movimento e ridare al nostro campionato l’importanza che aveva una ventina di anni fa?

Sai, da metà anni novanta il nostro campionato ha perso gradualmente appeal mentre altri campionati europei come quello svizzero o tedesco hanno fatto il salto di qualità. Questo ha portato gli stranieri forti a trasferirsi all’estero o a venire in Italia soltanto per usarla come trampolino di lancio, per farsi conoscere in Europa. La conseguenza ovvia è che un campionato con meno campioni desta meno interesse ed i giovani che si avvicinano allo sport vengono attratti da discipline più in evidenza. Bisognerebbe quindi cercare di catturare le nuove generazioni, fargli conoscere l’hockey e la sua cultura. In più, se si considera che prima di imparare a giocare bisogna imparare a pattinare, servirebbero impianti adeguati nelle grandi città. Nonostante tutto, va detto che avere una Nazionale che sale e scende dal gruppo A non è un risultato da buttare. Siamo comunque nell’elite mondiale avendo di fronte paesi con una tradizione hockeystica di tutto rispetto.

Per concludere,quali sono le tue ambizioni future?

Aver raggiunto la serie A ed essere andato ad arbitrare a livello internazionale lo considero già un buon risultato. Adesso mi piacerebbe diventare capo arbitro. Il sogno poi è quello di poter riuscire, un giorno, ad arbitrare un mondiale di gruppo A.

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